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Gus Van Sant, con qualche recensione degli ultimi film

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*Illy1987*
icon1  view post Posted on 22/9/2008, 19:44




Se non avete mai visto niente di lui, allora vi consiglio di farlo al più presto! E' sicuramente nel mio personale gotha del cinema, insieme a Kubrick e Tim Burton. Questa è la filmografia:

Mala Noche (1985)
Drugstore Cowboy (Drugstore Cowboy) (1989)
Belli e dannati (My Own Private Idaho) (1991)
Cowgirl - Il nuovo sesso (Even Cowgirls Get the Blues) (1993)
Da morire (To Die For) (1995)
Will Hunting - Genio ribelle (Good Will Hunting) (1997)
Psycho (Psycho) (1998)
Scoprendo Forrester (Finding Forrester) (2000)
Gerry (Gerry) (2002)
Elephant (Elephant) (2003)
Last Days (Last Days) (2005)
Paranoid Park (2007)
Milk (2009)

tra i film che preferisco sicuramente "Gerry" (guardarlo è stata un'esperienza trascendentale ;-)) con Casey Affleck e Matt Damon (e le magnifiche musiche di Arvo Part), l'unica pecca è che non è mai uscito in Italia; "Elephant" (sulla strage del liceo di Columbine) e il più recente "Paranoid Park".
Ecco qualche recensione (quella di Elephant è a dir poco incomprensibile!)

GERRY:

Trama:
Due ragazzi si perdono nel deserto.
Presentato a Locarno nel 2002, GERRY dimostra fin dai primi minuti che Van Sant è un pazzo, un puro folle: rinuncia a tutto quello che ci si potrebbe aspettare da lui (o da altri), imbocca una strada impossibile e non si smarrisce. Ogni elemento è ricondotto a una dimensione essenziale, perfetta e risolta in sé: due corpi anonimi (i ragazzi si chiamano l’un l’altro Gerry: un nome in codice?), senza passato (almeno esplicito), senza pensieri (c.s.), calati insensibilmente in una situazione irrisolvibile (a prima vista), procedono, malgrado tutto, verso un traguardo ignoto e difficilmente raggiungibile. Dialoghi ai minimi termini, azioni costantemente ripetute, passi sempre più faticosi, mentre il sole, le nuvole, le colline e la sterminata pianura di sabbia e roccia plasmano incubi notturni e visioni diurne. La macchina da presa segue i personaggi con lunghi carrelli che sembrano avanzare sulle ali di una libellula (emblematica la sequenza iniziale), si ferma per dieci minuti a osservarne in campo lungo il comportamento sfasato, compone arcane geometrie di volti e gesti, carica parole spezzate e frasi casuali di un’ironia disperata, profondamente beckettiana, giunge nel finale a un vertice quasi insostenibile di tensione statica e poi attenua (senza cancellarla) l’asperità del proprio sguardo in un epilogo “da camera” d’irrisolta (perché fondamentalmente irrisolvibile) ambiguità. Ogni barriera fra realtà e fantasia cede al peso invisibile della luce desertica, le cose assumono caratteri cubisti, i gesti perdono ogni traccia di naturalismo per trasformarsi in una danza rituale, il cui significato è sepolto sotto la sabbia di uno spazio che racchiude il tempo e viceversa. E se tutto fosse un gioco (il dialogo dalle parti di Ages of Empire), una deviazione a occhi aperti/chiusi [le (re)visioni del cammino], un nonsense? GERRY è un mistero interpretabile e impenetrabile, l’unica cosa certa sono le immagini, di una magnificenza raggelata che polverizza nell’astrazione ogni partenza realistica, approdando a una realtà sepolta, inquietante e commovente. Pura plasticità, che supera ogni altra istanza, e ancora si presta a una lettura “classica”: l’uomo è misura di tutte le cose, ma l’ultima misura che potrà prendere sarà quella della propria tomba (i ragazzi intrappolati in paesaggi la cui scala dimensionale può essere dedotta solo grazie alla loro presenza).
Girato in un pugno di giorni durante la preproduzione di ELEPHANT, GERRY è la prova che il più recente Van Sant (e non solo il più recente) non ha bisogno di temi “importanti” (disagio giovanile, violenza nella società dello spettacolo, solitudine dell’artista) per essere quello che è: pura vertigine visiva, gioco sconvolgente, temuto (la tardiva distribuzione internazionale e la mancata uscita nelle sale italiane qualcosa vorranno pur dire) antidoto di un cinema ostaggio di un’e(ste)tica da piccolo schermo.

ELEPHANT:

Elephant nasce come reazione polemica alla straordinaria copertura informativa data alla strage compiuta nel 1999 da due studenti presso la Columbine High School di Littleton (Colorado) dai mezzi di informazione (in alcuni casi degenerata in una forma perversa di intrattenimento) e, soprattutto, alle facili risposte offerte dai media all’indomani dei tragici eventi: accuse nei confronti del cinema, dei videogame e di un certo genere di musica rock che, secondo il giudizio comune, sarebbero stati alla base della carneficina. Gus Van Sant, che nel corso della sua carriera ha interrogato incessantemente il mondo giovanile e adolescenziale, anche nel complesso legame che esso instaura con il sistema dei media (si pensi solo al provocatorio finale di Da morire), non crede a queste tesi, dettate più dallo sgomento di una società tradita da due ragazzi appartenenti alla classe media e apparentemente non problematici che da una profonda riflessione. Per questo concepisce un testo filmico di rara lucidità ed efficacia, soprattutto per la capacità di disinnescare ogni tentazione feticista nei confronti dell’evento in sé, compiendo un’operazione di distanziamento sul piano della messa in scena e di disorientamento dal punto di vista narrativo. Del resto, esprimendo in più occasioni la sua ammirazione per Bowling a Columbine, il documentario di Michael Moore che prende le mosse dalla strage nel liceo per analizzare lo stretto rapporto esistente negli Stati Uniti tra pulsioni violente (spesso estreme, come nel caso delle stragi nelle scuole) e costruzione di un generale clima di allarme e paura proprio per mano degli stessi media, Van Sant dichiara allo stesso tempo di voler restare idealmente nel solco polemico tracciato con grande abilità da Moore e di prenderne nettamente le distanze dal punto di vista formale. In Elephant , dunque, la denuncia dei problemi della società americana (e, più in generale di quella occidentale) non passa attraverso un’analisi razionale e puntuale delle cause e degli effetti ma si offre attraverso il puro e semplice dato fenomenico, emerge dalla “normalità” – dalla monotonia e dalla banalità – di un giorno qualsiasi in una qualsiasi località della provincia statunitense, descritta in quanto universo apparentemente sano, puro e indenne dal male (un procedimento che, tra l’altro, ricalca i più classici stilemi narrativi del cinema statunitense di genere, soprattutto dell’horror e della fantascienza). Van Sant, semmai, sembra voler prendersi gioco dei tentativi di motivare l’esplosione di follia dei due giovani assassini disseminando il campo di indizi che in seguito si rivelano illusori: i dispetti ai danni di Alex da parte dei compagni, la “crisi di nervi” che coglie il ragazzo nella mensa della scuola, il documentario sul nazismo guardato insieme ad Eric poco prima della strage, quest’ultimo che gioca a un videogame il cui unico obiettivo è quello di sparare a delle figure umane che si aggirano in un deserto, sono solo alcuni tra gli elementi che era possibile cogliere tra i tanti nel flusso degli eventi, degli accenni o poco più che non hanno una consistenza tale da assurgere a cause determinanti, anzi semmai mettono in evidenza la pretestuosità e l’inutilità di una simile ricerca. Del resto, tutto nel film suggerisce una pressoché totale serenità, a incominciare dall’immagine della scuola, così lontana da quella tradizionale (lezioni noiose scandite da orari rigidi all’interno di luoghi deputati) che, significativamente, l’unica sequenza in cui assistiamo a una vera e propria lezione in classe è collocata su un piano temporale anteriore al giorno della strage, ovvero fuori dal fulcro della narrazione. La high school di Elephant somiglia a un campus universitario nel quale il tempo è sottratto alla stretta contingenza degli orari (ma ciò avviene anche a causa della scomposizione della linea narrativa operata da Van Sant), dove i ragazzi sono liberi di girare, entrare e uscire, percorrerne i corridoi intessendo una fitta rete di rapporti amicali. I protagonisti, del resto, ci vengono presentati sempre intenti in attività che, pur rientrando tra le materie di studio, non appartengono alle classiche occupazioni scolastiche: sport, fotografia, un improbabile seminario sui diritti delle minoranze sessuali, attività sussidiarie che non hanno un risvolto concreto, un’applicazione pratica, piuttosto sembrano concepite per “riempire” un tempo sostanzialmente vuoto perché sottratto alla contingenza del quotidiano. Si parla fugacemente di un’interrogazione di matematica, ma l’unica situazione in cui ci vengono mostrati dei contenuti didattici in senso più o meno tradizionale è quella in cui Eric ed Alex, rimasti soli a casa di quest’ultimo, guardano alla televisione un documentario sul nazismo. D’altronde, tranne che in pochissime occasioni, la famiglia e l’istituzione scolastica sono lasciate fuori campo, assenti o, perlomeno, distanti e distratte:. John si ritrova fin da subito a dover accudire il padre, incapace di guidare perché ubriaco; il preside sembra incapace di redarguire il ragazzo per il ritardo; i genitori di Alex sono poco più di due ombre sfocate inquadrate controluce, due fantasmi che abbandonano la scena dopo una manciata di battute prive di senso. Con il suo pedinamento ossessivo dei ragazzi di Portland Van Sant ci parla di un mondo nel quale ormai non esiste alcuna possibilità di contatto tra le generazioni, neanche quella basata sul tradizionale conflitto interno al mondo scolastico tra docenti e allievi o a quello familiare tra genitori e figli, un mondo nel quale ognuno vive in una propria realtà parallela alle altre che, solo per brevissimi tratti, trovano delle forme di convergenza, proprio come suggerisce la complessa struttura narrativa del film. I discorsi di tutti, inoltre, vertono su un tempo futuro molto – forse troppo – prossimo (la stessa serata o i giorni appena successivi) da occupare piacevolmente (un concerto, una festa, una cena con barbecue) ma che verrà presto negato dall’irruzione dei due assassini. Un’atmosfera “spensierata” che accomuna vittime e carnefici: “soprattutto, ci dobbiamo divertire” dice Alex ad Eric, con estrema naturalezza appena incrinata da una punta di cinismo, poco prima di partire per la loro missione criminale. Un universo nel quale tutto è garantito, tutelato, dato per scontato, nel quale ciò di cui ci si deve preoccupare è solo un eterno presente a portata di mano (si veda con quale semplicità e rapidità i due assassini entrano in possesso di una delle armi, grazie ad internet), immediatamente disponibile. Un presente dal quale ogni angoscia legata al vivere quotidiano è eliminata – se non la fatica dello stesso vivere – in favore di un’attenzione per tutto ciò che è accessorio, marginale, superfluo (le tre amiche anoressiche che chiacchierano di shopping, diete e moda), per l’apparenza (il seminario sui diritti delle minoranze sessuali, incentrato sugli elementi più appariscenti dell’omosessualità), per il corpo che viene via via ammirato, fotografato, allenato, esibito (o, al contrario, nascosto, come nel caso di Micelle, unica presenza timida e sgraziata in un universo di adolescenti tutti belli, spensierati e disinvolti), continuamente pedinato dalla macchina da presa del regista. Un corpo che, dunque, diviene elemento assolutamente centrale e, paradossalmente, al tempo stesso marginale, trascurabile: liberato dalle fatiche della quotidianità grazie alle tecnologie, dagli obblighi sociali in virtù di una visione superficiale dell’idea di libertà, dalle gabbie dei giudizi morali grazie a una visione tollerante della sessualità, il corpo diviene essenzialmente un elemento ludico, da “mettere in gioco”, magari nel senso più banale del termine, ad esempio come bersaglio di un videogame. Probabilmente l’unico “messaggio” che è possibile cogliere in Elephant riguarda il pericolo di un eccessivo allontanamento dell’individuo dalla coscienza della propria finitezza. Il gesto di Alex ed Eric non può essere interpretato come un atto di “ribellione” (per quanto folle), i due ragazzi perdono quell’aura da eroi romantici e perversi che, pur con qualche disagio, sarebbe stato possibile assegnargli se avessero agito in un contesto sociale ancora capace di affermare valori, di proibire, di condizionare gli individui, ma è semplicemente il punto estremo del distacco psicologico rispetto alla consapevolezza dei limiti della propria esistenza che riecheggia nei gesti, negli atti, nei dialoghi di tutti i personaggi del film. In Elephant si percepiscono in maniera nettissima i termini di un simile mutamento antropologico che, in quanto tale, impone alla società nel suo complesso la rinuncia all’individuazione di facili capri espiatori in favore di un profondo esame di coscienza da parte dei suoi istituti portanti: famiglia, scuola e sistema dei media in primis.

PARANOID PARK:

Trama:
Portland, Oregon. Alex, skater sedicenne, un sabato sera va a Paranoid Park e conosce un tizio che vive lì. I due saltano su un treno in corsa, ma qualcosa va storto e ci scappa il morto. A scuola di Alex si presenta un detective che vuole parlare con gli skater…
Alex è un ragazzino come tanti. Skateboard sotto ai piedi, un paio di jeans e tante incertezze. Portland, Oregon è una città dai toni violacei, quasi plumbea con le sue villette tutte uguali, i grandi palazzi grigi che caratterizzano i sobborghi e le periferie, lontane dal luminosissimo skyline. Paranoid Park è un area cementata costruita abusivamente sotto ad un ponte per dar sfogo all’ acrobatica passione degli skaters; il parco dell’East-side è un paese dei balocchi lontano dagli occhi indiscreti del benpensante perbenismo, una valvola per ragazzi ai margini della società. “Nessuno è mai realmente pronto per Paranoid Park”, dichiara Jared, grande amico di Alex, al protagonista: alla luce però di quanto illustrato nella pellicola, nessuno in realtà può considerarsi davvero capace di contenere le conseguenze che possono scaturire da una notte trascorsa nel parco degli skaters. E’ per questo che Paranoid Park diventa foriero per Alex dell’angosciante smania di dover nascondere un segreto inconfessabile. Van Sant insegue ancora una volta i suoi personaggi, osservando un adolescente che è inconsapevole del proprio destino (come in Elephant), ma che stavolta sa di esserne artefice. Mentre nel film dedicato al disastro di Colombine i giovani studenti si aggiravano per il proprio istituto ignorando che la follia omicida di alcuni loro compagni fosse sul punto di mettere fine alle loro vite, Alex si rende conto che il suo futuro sarà comunque segnato dalle sue scelte e dai suoi errori, come se la tragica esperienza vissuta nella notte al Paranoid Park avesse lasciato un timbro indelebile sulla sua pelle. Così mentre le ruote dello skate scivolano su strade deserte e sempre più o meno buie, Van Sant si ritrova a raccontare un nuovo vagabondaggio esistenziale: il giovane skater non è dunque così distante da Blake di Last Days, il rocker costruito su modello di Cobain. Mentre in Last Days la disgregazione dell’io portava ad un lento e costante deterioramento esistenziale, con conseguente suicido, in Paranoid Park Gus Van Sant decide di mettere sotto ai riflettori il terrore di un ragazzino costretto a serbare, dentro mezze frasi e sguardi fuggenti, il peso di una realtà dolorosa frutto dell’incoscienza e dell’inesperienza. Il candore infantile di un giovane dalle guance paffute viene graffiato e contuso dal continuo mutamento delle situazioni; eludendo le domande dei detective, cercando di nascondere l’imbarazzo e ostentando sicurezza, Alex si ritrova alle prese con bugie sempre più grandi che cozzano con la sua natura gentile. Con Paranoid Park non siamo di fronte alla rappresentazione di un ragazzo rovinato dalla mancanza di agi, costretto a convivere con gli stenti della famiglia ritagliandosi spazi che lo allontanino dal dramma del degrado urbano-sociale in cui vive. Alex, così come i suoi amici, è un ragazzo che proviene da una famiglia borghese: il suo problema risiede nell’essere figlio della società moderna, dove i suoi due genitori separati non comprendono le vere necessità dei figli, che avrebbero solo bisogno di attenzione e di affetto. Van Sant si aggira all’interno di un’America spaesata, dove tutti sentono il bisogno di una guida e dove però tale diritto viene negato proprio a chi ne avrebbe più bisogno, come un giovane in difficoltà. Il timbro espressivo di Van Sant è ben riconoscibile e continua ad affascinare, grazie ai suoi sofferti percorsi all’interno di turbe sopite dal silenzio forzato. Le sequenze rallentate che descrivono l’attività degli skater all’interno del Paranoid Park diventano degli autentici squarci di vita reale nella vicenda narrata, ed il loro taglio “documentaristico” è sottolineato da scelte tecnico-visive particolarmente azzeccate. Van Sant gioca con i colori e con i personaggi, costruisce degli affreschi giovanili che non sfociano nel vuoto teen-movie né si attestano sui toni freddi di una rappresentazione scaturita dalla moralistica indagine di stampo adulto. Utilizzando formati diversi (dal Super 8 mm al 35 mm, passando per il video digitale), Van Sant si pone come intermediario fra Alex con la sua convulsa attività di rielaborazione del dramma da lui vissuto, e il mondo esterno che sembra non comprendere il suo malessere. Tra disagio, malinconia e tenerezza, Paranoid Park non è altro che lo sguardo fulmineo che sbircia la confessione di un adolescente raccontata in un diario nel quale prendono forma i suoi sfoghi, fra singhiozzi ed incomunicabilità.






 
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akki/ chu hime
view post Posted on 22/9/2008, 20:08




ne ho sentito molto parlare, sopratutto per il remake di psyco, che in tanti considerano veramente un lavoro ben fatto, ma anche per last days e paranoid park, tutti film che però ancora non ho visto :(
 
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Nwanda
view post Posted on 23/9/2008, 08:42




Io A D O R O Gus! :wub:
Paranoid Park mi manca ancora, ma lo vedrò prestissimo.
Nella sua filmografia non ho amato particolarmente il remake di Psyco (per quanto Vince Vaughn non abbi fatto rimpiangere Antonhy Penkins) né, tanto meno, Last Days, per quanto, fondamentalmente, ammiri Michael Pitt.

Il film in assoluto che preferisco è "Belli e dannati"; è un film a tratti parecchio crudo, ed è il Van Sant che preferisco, assieme a Cowgirl e a Drugstore Cowboy.

Altro film che adoro letteralmente è "Da morire", con una perfidissima Nicole Kidman :wub:
Non so come definirlo, forse un thriller? Ma è proprio bellissimo, io lo rivedo spessissimo, penso anche che sia la migliore interpretazione di Nicole.

Anche Genio ribelle aveva molti pregi (tipo la presenza di Robin Williams) ma io Matt Damon non lo digerisco, nulla da fare...

Elephant mi ha fatto stare seriamente male, anche perché prima di vederlo mi ero vista un documentario sulla strage della Columbine High School.

COnsiglio di leggere "pink", il libro di Van Sant, un romanzo davvero interessante :)
 
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*life*
view post Posted on 23/9/2008, 16:04




Aaaaaaaaaaaah si parla del regista di Will Hunting :daidai:

Però è vero quello che dice Viola...anche a me non garba molto Matt :/

Ma Robin... :free: .........ho detto tutto! -_-
 
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Nwanda
view post Posted on 23/9/2008, 18:10




Oddio, per me Damon è espressivo come un'acciuga :( In quel film è moooolto meglio Ben Affleck (e non che lui, fondamentalmente, sia questo premio oscar, eh)

Robin in qualunque film lo metti, risolleva la situazione :wub:
 
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Irene90
view post Posted on 23/9/2008, 22:27




sono d'accordo! :)

purtroppo di Gus non ho visto niente! però cercherò di rimediare nellle direzioni da voi indicatemi! :) sinceramente ho sentito parlare un pò male di Last Days.. :unsure: mi confermate le voci?
 
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Nwanda
view post Posted on 24/9/2008, 09:18




"Last days" fa acqua da tutte le parti :( A me ha lasciato proprio "così"...
Poteva essere un gran film, essendo ispirato agli ultimi gionri di Kurt Cobain. Peccato che quella s*****a di Courtney Love non abbia permesso a Van Sant di fare un biopic. Quindi è uscito fuori questo film che non ha una trama vera e propria ed è lentissimo.

Io, tanto per cominciare, ti consiglio "Belli e dannati", dove c'è il grande River Phoenix, e anche un Keanu Reeves che per una volta non recita come una sedia :D
Poi il fantastico "Da morire" :wub:
 
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Irene90
view post Posted on 24/9/2008, 13:55




grazie mille carissima!!! :) li terrò di conto! *censored* subito XD
 
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Nwanda
view post Posted on 24/9/2008, 18:51




Bravissima :D
 
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8 replies since 22/9/2008, 19:44   78 views
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